Rollo mistico del Vescovo Trasarti - Movimento dei Cursillos di Cristianità in Italia

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Rollo mistico del Vescovo Trasarti


La gioia del Vangelo

Le azioni devono vibrare, devono avere un cuore: un cristiano asettico e distante, anaffettivo e ingessato non incontrerà mai la sua gente, non comunicherà il Vangelo.
1 Ts 2,1-12
Voi stessi infatti, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata vana. Ma dopo avere prima sofferto e subìto oltraggi a Filippi, come ben sapete, abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte.
E il nostro appello non è stato mosso da volontà di inganno, né da torbidi motivi, né abbiamo usato frode alcuna; ma come Dio ci ha trovati degni di affidarci il vangelo così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori.
Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio.
Voi siete testimoni, e Dio stesso è testimone, come è stato santo, giusto, irreprensibile il nostro comportamento verso di voi credenti; e sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a comportarvi in maniera degna di quel Dio che vi chiama al suo regno e alla sua gloria.

Già una pagina come questa rappresenta essa stessa un elenco di sentimenti e di passioni: purezza delle intenzioni, autorevolezza di una madre, fermezza e responsabilità come un padre. Ma soprattutto appare chiaro che per Paolo non è possibile annunciare il Vangelo senza creare affetti e legami, senza il rischio di passioni e sentimenti, privi dei quali il Vangelo stesso sarebbe muto, incomunicabile.
Quando succede che i cristiani sono incapaci di amare e farsi amare, il Vangelo non si trasmette più.

Se i cristiani non brillano del fuoco dell’amore, della passione della verità, dell’entusiasmo della bontà e del dono di sé, come potrebbero infiammare il mondo? Noi abbiamo bisogno gli uni degli altri per crescere nella fede, per progredire nella conoscenza della verità. Solo nella misura in cui prenderemo coscienza di questa responsabilità che abbiamo gli uni nei confronti degli altri, portando i fardelli gli uni degli altri, potremo rispondere del dono di Dio.
Ma questo suppone anche da parte nostra quella duplice fedeltà di cui parla Giovanni. La nostra fede ha bisogno di essere nutrita, fortificata, dal contatto regolare con il mistero della Parola di Dio e del Corpo del Signore. Senza la sua Parola, senza la sua Eucaristia, non possiamo fare nulla.
E’ perché vivremo di lui che il Signore ci farà vivere, moltiplicherà le nostre comunità e le renderà ferventi e vive, come raccontato in Atti degli Apostoli 5,12-16.
Le nostre comunità attuali sono più numerose di quella prima comunità che è all’origine dei due miliardi di cristiani che esistono oggi. Allora di cosa aver paura? Non lasciamoci paralizzare dalle nostre inquietudini, dalla povertà dei nostri mezzi. Senza di lui non possiamo far nulla, certo; ma con lui, tutto diventa possibile! Con lui, più nulla è impossibile.

Se leggiamo il Vangelo di Marco dobbiamo arrenderci a questo dato impressionante: la paura lo percorre dall’inizio alla fine come controcanto indispensabile alla fede. I discepoli vengono prima messi a nudo nelle paure più elementari in due diverse traversate sul lago; poi conoscono la paura lungo la via, nel cammino verso Gerusalemme con quel Maestro che indica la via della croce come quella da seguire; infine crollano nella paura al momento cruciale della passione. Per questo il giovane che appare alle donne il mattino di Pasqua rivolge loro questa come prima parola: “Non abbiate paura” (Mc 16,6). Per Marco credere non significa non provare paura ma piuttosto attraversare tutte le dimensioni del timore fino all’estrema paura di morire. Anzi, la paura nella sua forma estrema è quella che solo il Maestro può attraversare per noi: e così avviene, nella preghiera dell’orto del Getsemani dove Marco sottolinea che Gesù cominciò a provare “paura e angoscia”. Se il Maestro ha dovuto sperimentare l’umanità fino al punto di provare paura e angoscia, non possiamo pensare che per il discepolo possa essere altrimenti.

Ogni discorso su Dio ha avuto, oggi e sempre, bisogno dell’umano per essere pronunciato. Alle parole dell’uomo è sospesa tutta la bellezza e la drammaticità della vita, e la capacità di dare ogni volta nuovo senso alle medesime parole. Gli eventi, forgiando alla vita, forgiano allo stesso tempo al senso e al significato e ci consentono ogni volta di leggere, in altro modo, il testo che più di ogni altro ci appartiene, quello della nostra storia e della nostra carne.




La gioia del Vangelo nasce da un incontro (il ‘fondamentale’ cristiano)
La gioia del Vangelo nasce da un incontro, che si esprime nella forza della novità, nel coraggio che muove l’agire; forza, gioia, coraggio, azione che hanno origine in una Buona Novella ricevuta. Questo termine, a volte così familiare da essere depotenziato della sua forza, si lega – fin dall’antichità – all’annuncio di una vittoria militare: un fatto che segna la vita di chi riceve la notizia, un annuncio che cambia l’esistenza. La Buona Notizia, il Vangelo, annuncia che Dio interviene e trasforma, cambia, capovolge, rovescia le situazioni a favore dell’uomo. La vita che nasce dal Vangelo è capace di restituire alla vita senso e dignità, porta a scoprire che la vita vale la pena di essere vissuta, pur nella paura, nello smarrimento, nell’anonimato che le nostre città possono generare e ci sprona a cercare punti fermi che nemmeno la sofferenza ha la capacità di torgliere o smentire. Le crisi di senso (cf. EG 50.109) che sono spesso accompagnate dall’incapacità o dalla fatica di gustare la vita, sembrano essere paradossali in un contesto sociale che ha la pretesa di offrire il contrario. Eppure le crisi di senso oggi si rivelano provvidenziali: la drammaticità del vivere, l’eccedenza oscura della vita rispetto ad ogni senso ideale, l’esperienza sempre più dolorosa del limite, della precarietà e della morte, la questione irrisolta del male e del negativo, lo scontro con la differenza e con l’ingiustizia… tutto ciò fa esplodere ogni risposta preconfezionata. Questa ‘provvidenziale’ crisi ci consente di prendere congedo dalle false sicurezze per iniziare veramente un cammino di vita adulta alla ricerca del senso e del significato.
La gioia del Vangelo è dono dello Spirito, solo lo Spirito è capace di generare la gioia della consolazione, che spinge verso la capacità di amare Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio, dove l’amore si qualifica come la più alta via di senso e di testimonianza. La gioia coinvolge, mossa da desiderio di diffondere e di comunicare ad altri la via possibile della felicità. Questo è il senso della testimonianza: vivere la gioia per risvegliare in altri il desiderio della ricerca del loro personale percorso verso la sensatezza della vita che, necessariamente, si manifesta nella qualità alta delle relazioni umane, ricordandoci che una relazione impegnata con il Signore non può non impegnarci a favore degli altri.

“Perché non entrare anche noi in questo fiume di gioia? Ci sono cristiani che sembrano avere uno stile di Quaresima senza Pasqua. Però riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte le tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, aldilà di tutto (EG 5-6)”

La gioia non ha nulla a che spartire con la spensieratezza né, tantomeno, con il semplice divertimento. La gioia ha una qualità pasquale che nasce dal fatto che essa è radicata nella realtà colta e accolta in tutta la sua complessità. La gioia pasquale non sta accanto alla vita, ma fa parte integrante della vita che talora si mostra molto dura e difficile. In questo senso la cosa più importante è di non perdere il contatto con la radice della gioia, che è la memoria consapevole di essere infinitamente amati. L’amore è capace di condividere i tempi della gioia e non si assenta mai nei momenti del dolore e della fatica. entrare nel fiume della gioia esige almeno due cose. La prima è di non assolutizzare mai il proprio dolore, anche quando fosse assai difficile da portare. La seconda è di non privatizzare mai né il proprio dolore né la propria letizia, che vanno portati insieme nella consapevolezza di un amore che ci viene da Dio a cui possiamo sempre attingere e in cui possiamo sempre immergerci.

Mi chiedo con voi: quanti, incontrando un uomo, una donna o una comunità possano dire: “Che bella la vita, le parole, le relazioni che vivono queste persone! Esse riescono a trasmettere amore per una vita bella, desiderio di parole sincere, passione per relazioni vere, voglia di contagiare il Vangelo della gioia!”
Ricordiamo però che la capacità di essere lievito, nel nostro contesto, e corresponsabili, non si improvvisa. Essa richiede un tirocinio spirituale e culturale costante; richiede percorsi formativi adeguati, vera scuola di formazione cristiana. (Scuola responsabili).

Occorre riattivare le dinamiche della fede: abbandono fiducioso e cammino di conoscenza.
Ogni giorno ci è chiesto di compiere delle azioni perché ci affidamo. Allora diventiamo testimoni di fede (proselitismo o attrazione? EG 1).
E’ il fascino del bene che ci è chiesto. Dare fiducia a Dio: fede come accoglienza di una persona. Naturalmente la fede fa fiorire una ricchezza operativa straordinaria (pietà – studio – azione = riunione di gruppo).
Il fascino, ovvero il mostrare a quale ricchezza la fede ci conduce. Il fascino suscita fiducia e compagnia.

“Oggi le parole sono stanche” (don Ciotti)
perché girano troppo a vuoto, lontane dalla realà che vorrebbero rappresentare. Ci servono parole realmente attaccate alla vita, capaci di saldare l’autenticità di chi le pronuncia con i bisogni profondi di chi le ascolta. Abbiamo bisogno di parole feconde, di parole cioè che sanno aprire il cuore e indirizzarlo verso un orizzonte più largo, di parole che contengono squarci di nuovo, di parole che, in questi tempi difficili, covino germi di speranza.
Vediamo tanti libri con titoli di questo tenore. Chi è Gesù Cristo? Il Cristo della fede, il Cristo della storia… Ma il vero problema è cosa c’entri TU con la mia vita!? Solo io posso rispondere. La risposta deve avere l’aggettivo “MIO”. “Mio Signore e mio Dio”. Mio come il respiro e, senza, non sarei…
Prendo in prestito le parole di P. Turoldo: “Cristo, tu sei la mia dolce rovina”, che rovina la vita insufficiente e la ricostruisce più ampia e concreta.
“Ho percorso altre strade, di negazione, ma anche di ricerca. Ho trovato solo sinificati parziali, troppo piccole porzioni di pienezza per accontentare il desiderio che mi sentivo dentro. Più passavano gli anni e più provavo inquietudine e scontentezza. Era fame, la fame di Dio…” (Marina Marcolini).
Oggi il sangue dei testimoni è più urgente dell’inchiostro degli scrittori. Gli uomini d’oggi sembrano stanchi di parole: credono a ciò che vedono e a ciò che toccano. C’è una parola-suono e una parola-vita; la vita impastata di coerenza.

Fede essenziale.
“Sogno una Chiesa scalza, senza apparenze e senza apparati, senza paludamenti e porpora, che annunci la buona notizia in modo non arrogante: non si può trasmettere il Vangelo con arroganza, si trasmette come una melodia da cuore a cuore” (E. Ronchi)
Il Salmo 130 (131) Lo spirito dell’infanzia
Signore non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano in alto,
non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me.
Io invece resto quieto e sereno; come un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia.
Israele attenda il Signore, da ora e per sempre.
Fede bambina, fede portata in braccio che inaugura una teologia della tenerezza. La tenerezza nella sua gratuità è teologica, contiene una rivelazione del volto di Dio.
La tenerezza è un sentimento delicato e mite, una brezza leggera. La tenerezza è disarmante. Il suo simbolo è la carezza, quel gesto che non è possesso né predazione, che sfiora e lascia libero, che offre calore e non domanda nulla. La fede è la carezza di Dio



Preservare la freschezza del carisma, rinnovando sempre il primo amore.
La fede talora è stata avvolta, incartata, intonacata in un linguaggio ecclesiale che fuori della chiesa non comunica molto, suona come un gergo tecnico sganciato dalla vita. Occorre una fede profumata di vita come il pane caldo di forno. Il cristiano non è uno che obbedisce a una legge, ma uno che depone le armi di fronte all’amore. E questo dà gioia. Io credo che la gioia sia il termometro della vita spirituale. Più sono vicino a Dio e più sono felice. Fede è amare la vita in tutte le sue forme, infinita passione per tutto l’esistente. Non devo diminuire l’umano per far posto al divino, al contrario. Più Vangelo entra nella mia vita più io vivo.
Nella fede ci sono tre passi: ho bisogno; mi fido; mi affido.
All’inizio, uno stringersi a Dio perché abbiamo bisogno, come chi si aggrappa perché ha paura, sta scivolando, ha messo un piede in fallo, e protende le braccia per non essere trascinato giù: ho bisogno.
Poi uno stringersi come il bambino in braccio a sua madre; che si fida di ciò che la madre fa per lui, crede in un abbraccio che nutre e da forza alla vita; obbedisce a ciò che gli chiede, perché sa che non sarà mai ingannato, mai tradito, mai abbandonato: mi fido di te.
Infine mi affido, come quando l’amato si stringe all’amata e ciascuno consegna la sua vita nelle mani dell’altro, consegna tutto: felicità, libertà, futuro, corpo e anima, in un abbraccio che fonde in una due vite, che dice: mi manca la vita se tu mi manchi. Allora potrò raccontare la mia fede come si racconta una storia d’amore. Fede è anche piacere di amare e di essere amato.

Dalla fede la parresia.
Sì, la fede si manifesta come coraggio, come parresia. Il contrario della fede non è l’ateismo, quanto la paura, la codardia, e soprattutto la schiavitù a cui la paura assoggeta l’uomo. Se la fede nasce dall’ascolto (fides ex auditu: Rom 10,17) e si manifesta nel parlare (noi crediamo e perciò parliamo: 2 Cor 4,13) allora la fede rende i credenti uomini e donne coraggiosi, che osano una parola evangelica nella chiesa come nella storia.
Un aspetto della crisi della fede in Occidente è che essa manca di coraggio, che i cristiani sono poco coraggiosi, non osano la parola schietta che nasce dal Vangelo e troppo spesso tacciono. Il coraggio della parola si fonda sul coraggio dell’ascolto, sul coraggio di aprirsi alla Parola di Dio (audemus audire, non solo audemus dicere) che ci libera dal servilismo nei confronti delle parole vincenti e prepotenti, dalla viltà e dai timori riverenziali.



Una chiesa precaria.
Tutto ciò che l’uomo possiede è precario, mutevole, instabile, fragile. Noi cristiani abbiamo rimosso la precarietà, soprattutto quando pensiamo alla Chiesa e alle realtà spirituali da noi intraprese. Ci sentiamo garantiti dalla parola di Gesù: non pravalebunt (Mt 16,18). Gesù non toglie la precarietà alla comunità cristiana, ma assicura che l’inferno non avrebbe avuto l’ultima parola nella Chiesa di Dio. In questa Chiesa le comunità cristiane finiscono sempre più per riconoscersi fragili, deboli, precarie… Questa è la situazione normale dei cristiani nel mondo. Gesù aveva indicato i discepoli come sale, luce, città posta sul monte; aveva chiamato la sua comunità “piccolo gregge”. Oggi vediamo molte comunità precarie, povere di uomini, poco efficienti e poco visibili, incapaci di proporsi e di essere una presenza che si fa sentire.
Ciò che conta oggi è che le comunità cristiane siano evangeliche, cioè vivano secondo il Vangelo, lo testimonino, siano segni di narrazioni di Gesù Cristo e del comandamento nuovo lasciato da Gesù. L’Apostolo Paolo confessava: “Quando sono debole, allora sono forte” (2 Cor 12,10). E questo può essere vissuto anche nelle situazioni di precarietà comunitaria.


Vivenza e convivenza- condivisione del proprio cammino nella fede rinnovata
Artefici di comunione perché il mondo creda!
La riunione di gruppo (il ‘treppiedi’: pietà – studio – azione): la fraternità e la testimonianza.
La fraternità (riunione e vita di gruppo)
Sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci…Il Vangelo ci invita sempre a correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro…
Lì sta la vera guarigione, dal momento che il modo di relazionarci con gli altri che realmente ci risana invece di farci ammalare, è una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, che sa sopportare le molestie del vivere insieme aggrappandosi all’amore di Dio, che sa aprire il cuore all’amore divino per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono. (Evangelii gaudium 87.92)

Nella costruzione della nostra identità personale è fondamentale la capacità di entrare in relazione con gli altri. Fondamentale è anche la capacità di vivere la relazione come un dono reciprroco e non come una dipendenza.
La fraternità è il luogo dello scambio di interiorità, del dono di se, in cui vivere la corresponsabilità, la partecipazione, l’interdipendenza. Nella fraternità la radice dell’amore è la fede. La fraternità evangelica è una comunità di fede, riunita sotto la Parola.
L’amore della fraternità non è spontaneo, ma frutto di una convinzione; perché suo padre è mio Padre e il mio Dio è il suo Dio. In Dio Padre ci si riunisce per amarsi, rispettarsi, perdonarsi, comprendersi e comunicare tra loro.
Siamo fratelli nel disegno divino che Cristo rivela, ma non basta. Occorre imparare a diventare fratelli. La fraternità va costruita. La fraternità chiede coinvolgimento nelle relazioni umane; per stare con i fratelli bisogna scegliere di servire. Il servizio ci insegna a prendere l’iniziativa intuendo i bisogni, ci porta su strade che non avremmo umanamente scelto.

La testimonianza (narrare l’esperienza di fede)
L’ascolto di un racconto può cambiare la vita di un uomo: per noi è essenziale imparare nuovamente a raccontare, a leggere, ad ascoltare; quando avvengono queste cose la persona cambia, perché si sente attratta da una Verità che gli appartiene e che, prima di quell’ascolto, gli era sì vicina, ma inaccessibile.
L’incontro fra il racconto e il suo ascoltatore conduce quest’ultimo a una rivelazione di sé, a una identificazione, a una trasformazione, a una conversione. Si tratta di una esperienza simile a quella apostolica narrata dai Vangeli: il racconto coinvolge l’ascoltatore, qualcosa inizia a parlargli, rivelandogli ciò che neppure lui conosce di se stesso; comincia allora a sentire, a vedere, a pensare in un modo diverso; qualcosa lo attira, lo affascina, ma nello stesso tempo, esercita una forza, una pressione, impone un cambiamento sempre più radicale.
La formazione deve essere in grado di dare significato alle esperienze quotidiane, interpretando la domanda di senso che alberga nella coscienza di molti. Ciò può avvenire in modo particolare testimoniando e narrando la fede a partire da una vita spirituale intensa: Dio si è rivelato agli uomini con gradualità, con eventi e parole intimamente connessi.

“Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso, è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un ‘racconto’ e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità. Ciascuno di noi è un’autobiografia, una storia. Per essere noi stessi dobbiamo avere noi stessi, possedere, se necessario ri-possedere la storia del nostro vissuto. Dobbiamo ‘ripetere’ noi stessi, rievocare il dramma interiore” (O. Sachs neurologo)
Ognuno di noi ha un piccolo racconto della propria storia, una linea rossa che spiega ed unisce le esperienze vissute dandole senso. Sono le narrazioni della nostra esistenza, sono le “parole maestre” che interpretano e chiariscono, che ci fanno comprendere e ci aiutano ad indirizzare la nostra vita.
Che cosa c’entra Dio? Cosa c’entra con la mia storia? La mia fede: il racconto autentico della mia vita. Se noi possiamo dire che quel Gesù è “buona notizia” per noi oggi è perché c’è stata una parola, cistodita e riportataci dalla comunità dei credenti, che ha svelato-interpretato il senso di quella storia.
Storia dell’uomo e storia di Dio.
L’evento, da solo, non dice (la croce è stoltezza/scandalo… 1Cor 1,23)
La parola, da sola, non illumina (anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli… 1Cor 13,1).
L’insieme - evento + parola – dà senso a quella storia, cioè è capace di ricondurla ad unità. Ne fa storia di salvezza.
Il Concilio Vat II (DV 2) dice che l’ “economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiuite da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto”.
Tutta la storia della salvezza è una grande narrazione dell’opera di Dio e dell’esperienza umana. La narrazione è la modalità tipica di trasmissione della fede che ci mostra il mondo biblico. Racconta cioè l’esperienza di fede. In un annuncio che voglia utilizzare la dinamica narrativa si intrecciano sempre tre storie. Quella di Dio: Dio che si fa vicino, che condivide la vita dell’umanità; quella del narratore: pienamente coinvolto perché quello che ha vissuto, ora lo condivide raccontandolo; quella di chi accoglie il racconto: le sue attese, le sue speranze, la libertà di lasciarsi coinvolgere.
Tessendo assieme queste storie, sarà possibile seguire una traccia, scoprire un senso, dare un nome alle cose e agli eventi della vita e riconoscer Dio nella nostra esistenza.
Infine la narrazione della fede offre il coraggio di riorientare la propria vita, sollecita alla decisione.

La parola Ultreya significa “andare avanti, andare oltre” e pone le persone in questo atteggiamento dinamico, di movimento, perché spinge ad anadare avanti senza cedere né alla stanchezza né allo scoraggiamento. L’ultreya è una sorta di catecumenato che aiuta a prendere coscienza della propria vocazione nella Chiesa, mediante la “vivenza” e la “convivenza-condivisione” del proprio cammino nella fede rinnovata, rendendo presenti le testimonianze di vita che, per fede, lo Spirito ha saputo suscitare. Il Cursillo vuole mantenere questo clima di “pellegrinaggio”, fatto anche di cadute e mancanze e pertanto mette in guardia dal sentirsi “arrivati”.

Le nuove sfide delle comunità cristiane in Europoa
Ieri, le nostre comunità hanno dovuto sostenere le sfide del nazismo e del comunismo. Oggi, c’è la sfida del laicismo, che tenta di occultare la presenza dei valori religiosi ed in particolare di quelli cristiani nella vita pubblica. Lo si è visto nella discussione sul Trattato costituzionale dell’Unione Europea.
I cristiani non devono però scoraggiarsi; devono continuare a diffondere la loro concezione della vita individuale e sociale, con il metodo fraterno verso tutti. Il dialogo diventa importante ed entra a far parte della stessa missione evangelizzatrice della Chiesa, in intimo legame con l’annuncio di Cristo, che è la sua ragione di essere nel corso della storia umana. Oggi con tale dialogo sentiamo di contribuire alla pace sociale e di concorrere a quel “ministero di riconciliazione” (2 Cor 5,18) al quale siamo chiamati, in forza della nostra missione.

Il lievito del Vangelo
E’ questo un lavoro lento e paziente, così come lento e paziente è il lavoro della Chiesa in generale, per porre il lievito del Vangelo nella nuova realtà del continente, così come ha sempre fatto nei duemila anni della sua storia.
In realtà nessuno studioso può negare come il messaggio di Cristo abbia permeato la nostra civiltà, trasformando poco a poco, come il fermento della parabola evangelica, il mondo greco-romano e poi i popoli che si sono andati costituendo in questo continente.
“Certo la missione propria della Chiesa non è di ordine politico, economico e sociale: il fine, infatti, che le è prefisso è di ordine religioso. Eppure proprio da questa missione religiosa scaturiscono compiti, luce e forza, che possono contribuire a consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina” (Gaudium et spes n. 42).

Una nuova “geografia della fede” pe run nuovo primo annuncio del vangelo
La situazione della fede europea è, a mio parere, spaesata. Siamo una folla di individui senza confessione religiosa (areligiosità pacifica – assenza ‘positiva’ di qualunque fede). Parliamo allora – in tanti luoghi – di necessità di un primo annuncio; la sfida è quella di una rievangelizzazione che porti verso una fede interiorizzata, comunitaria, con incidenza nella vita quotidiana. Là dove, invece, permane una consistente tradizione cristiana, il nostro compito è quello di transitare da una fede tradizionale a una fede liberamente ed esistenzialmente assunta e di modificare le molte rappresentazioni religiose ancorate nella mentalità che sono di ostacolo alla fed e che distorcono il volto del Dio di Gesù Cristo.
Là dove si è serenamente e pacificamente areligiosi, la fede dovrà presentarsi soprattutto come capacità di sorprendere, di fare del Vangelo una bella sorpresa, un di più gratis che cambia il sapore della vita. Cristiani non si nasce, si può diventarlo, ma questo non è percepito come necessario per vivere umanamente bene la propria vita.
Occorre il recupero della gradualità ed organicità della proposta di fede, cioè della sua dimensione iniziatica. Per gradualità ed organicità intendiamo la messa in atto di tutto il processo di introduzione alla fede: la proposta non può oggi raggiungere solo l’intelligenza delle persone, ma la totalità delle dimensioni della persona.
In un contesto sociale nel quale Dio non è né evidente né necessario, per annunciare il Vangelo occorre che recuperiamo il linguaggio tipico del kerigma, cioè il linguaggio missionario che noi abbiamo da secoli dimenticato. Occorre poi che incrociamo il vissuto della gente, il loro bisogno di vita, recuperando il linguaggio narrativo e autobiografico della fede, perché il Vangelo non è Vangelo se non è racconto che incrocia i racconti umani.
Occorre fare spazio al linguaggio simbolico della fede, proprio in particolare della liturgia, essendo questo il linguaggio più adeguato non solo per dire, ma anche per fare esperienza della fede cristiana. Occorre infine, in un contesto di non evidenza e di non necessità della fede, che onoriamo il linguaggio apologetico, inteso nel suo senso positivo, cioè come capacità di dare ragione alle donne e agli uomini della speranza che è in noi, cioè di presentare un cristianesimo plausibile, possibile e desiderabile.

In conclusione si tratta di ripensare radicalmente il compito dell’evangelizzazione, ma soprattutto dell’opportunità per la Chiesa stessa di ritornare a credere diversamente, di ritornare lei, prima di tutto, a riascoltare in maniera nuova, inedita, il Vangelo di sempre. “Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,16).
Spetta a noi, con passione e intelligenza, servire l’azione di questo Spirito che rende nuove tutte le cose (Ap 21,5).
Cristo conta su di te! Non deluderlo! Non deludiamol

Roma li 01.05.2015

+ Armando vescovo




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